D. I temi della globalizzazione e dell’antiglobalizzazione hanno negli ultimi anni monopolizzato l’attenzione degli studiosi ed avuto un forte impatto sull’economia e sui movimenti sociali. Le questioni connesse allo sviluppo economico, nonché a tutto ciò che intorno a tale sviluppo si muove, sono di grande complessità e riguardano anche problemi etici e scelte che hanno una importante ricaduta sociale. Ricordiamo che in occasione del G8 di Genova il Cardinale Tettamanzi, allora Vescovo del capoluogo ligure, presentò una sorta di manifesto, espressione di una vasta parte del movimentismo cattolico e fortemente rappresentativo della posizione della Chiesa nei confronti della globalizzazione economica; una posizione in qualche modo terza rispetto ai due poli sopra richiamati.
Quali riflessioni ritiene più significative su temi quali etica, economia e globalizzazione?
R. La parola «globalizzazione» è diventata una sorta di contenitore indistinto che racchiude tutto il bene e tutto il male. Viene demonizzata ed esaltata. Ancora oggi, Il Sole 24 ore titola un suo articolo: “Meno poveri con la globalizzazione”.
Ciò che osservo è che la maggioranza della letteratura è critica ed ostile nei confronti di tale fenomeno. Anche in campo cattolico si hanno molte riserve.
Il termine globalizzazione dovrebbe descrivere un processo mondiale in atto. In realtà, non abbraccia tutti i continenti né tutti i campi della vita sociale. Alcuni settori poi, quali l’amministrazione locale o la difesa nazionale, per definizione non potranno mai essere globalizzati. Se lo fossero resterebbero senza significato sia il termine nazionale che locale.
Ciò posto, è indubbio che la globalizzazione presenta aspetti decisamente positivi, nella misura in cui rappresenta uno dei fattori che ha consentito un’enorme produzione di beni e di ricchezze e reso possibile l’interconnessione degli angoli più reconditi del mondo, diffondendo l’impressione che le barriere dello spazio e del tempo siano scomparse.
Nel campo cattolico e nel campo dell’intellighenzia la globalizzazione è tuttavia vista in modo molto critico. Ernesto Galli della Loggia, recentemente intervistato anche dalla vostra Rivista, osservava in una sua conferenza che tale fenomeno non è riuscito ancora a diventare mitologia, né ad avere un’etica propria. Per queste ragioni, sarebbe molto avversata dai giovani e dai religiosi.
Credo che nel nostro Paese ogni settimana sia pubblicato un libro sulla globalizzazione. Dovrei dire, più esattamente, contro la globalizzazione.
È certamente vero che si tratta di un fenomeno inarrestabile, come la rivoluzione industriale nei secoli passati. È però un fenomeno umano, come tale può essere certamente guidato.
La Chiesa, ossia il Magistero riconducibile alle Conferenze Episcopali e, più in particolare, al Magistero Pontificio, ha un atteggiamento ambivalente verso la globalizzazione.
Ambivalenza significa vedere nella globalizzazione uno strumento, un processo. Lo strumento, in quanto tale, non può essere considerato né buono né cattivo, dipende dall’uso che se ne fa e a servizio di chi e di che cosa viene posto. Sarà buono, se servirà alla crescita dell’umanità, cattivo se invece si trasforma, come viene avvertito da molti, in una nuova e moderna forma di colonizzazione.
La Chiesa, di nuovo intesa come Magistero Pontificio, non ha redatto un documento solenne sulla globalizzazione. Ne parlava, in verità con altre parole perché il termine globalizzazione non era ancora di moda, la Sollicitudo rei socialis del 1987, riferendosi in particolare all’interdipendenza a cui si risponde con la solidarietà.
Sarebbe stato probabilmente dedicato alla globalizzazione il documento del 2001, se la Chiesa avesse mantenuto la scadenza decennale per i suoi documenti sociali. Invece il 2001 è passato senza nuove encicliche sociali. Esiste però un breve discorso del Papa alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, nel 2001, che riassume esemplarmente la posizione della Chiesa, più o meno nei termini che ho esposto.
La Chiesa vede con preoccupazione la globalizzazione per alcuni suoi aspetti. Ritiene che vi possa essere una via di uscita, una sorta di umanizzazione dell’intero fenomeno, solo se questo verrà animato da un’etica. L’impressione è infatti che si globalizzino le finanze, i commerci, le tecnologie, i capitali, ma non i valori.
Anche la parola etica può però risultare equivoca: ci sono tante etiche. Alla Chiesa interessa un’etica che sia al servizio della persona, che metta, in altre parole, al suo centro la persona umana.
La globalizzazione, quindi, diventa positiva se è al servizio della persona, della solidarietà e del bene comune.
La Chiesa, o comunque il mondo religioso o una sua parte significativa, mettono insomma sotto accusa alcune caratteristiche allarmanti del fenomeno globalizzazione.
Un primo aspetto riguarda l’aumento mondiale delle disparità, causato dal ristretto numero di persone o di Paesi che controllano le leve fondamentali dello sviluppo. Dal 1975 in poi, infatti, si è invertita la tendenza, propria del mondo occidentale, verso una sempre maggiore distribuzione della ricchezza. A partire da quella data, la ricchezza è andata concentrandosi. Tale processo, cioè la modificazione dell’equilibrio tra ricchi e poveri a danno di questi ultimi ha riguardato sia il livello internazionale, paesi e continenti, sia quello interno, delle singole realtà statuali. Anche sulla base dei dati diffusi dall’ONU, mi sono convinto che dalla globalizzazione tutti abbiano tratto qualche profitto, anche se ad una grande maggioranza di esseri umani sono andate solo le briciole. In altre parole, tutti godono di un maggiore benessere da un punto di vista generale, ma in termini relativi la situazione è tutt’altro che migliorata, poiché sta aumentando la distanza dei poveri rispetto alla popolazione abbiente.
Un secondo aspetto, allarmante è che la competitività che la globalizzazione consente a livello mondiale – come dice la parola stessa – possa mettere a rischio alcune conquiste sociali fondamentali, quali il welfare state. Infatti, se è necessario ridurre i costi a causa di questa competitività esasperata, le strutture legate al benessere, quali la previdenza, le pensioni, i sistemi sanitari devono essere, se non smantellate, come temono alcuni, sostanzialmente ridimensionate.
Un terzo aspetto, che sta a cuore alla Chiesa, è sapere chi sia – o meglio chi debba essere – il protagonista della globalizzazione. L’ideale sarebbe, e di questo la Chiesa ha preso coscienza solo un po’ alla volta, che il potere fosse sempre più distribuito, ossia sempre più partecipato attraverso forme di democrazia, non necessariamente analoghe ai modelli che noi conosciamo, ma tali da garantire a tutti, in qualche modo, la possibilità di far sentire la propria voce.
D. Lei ha fatto riferimento ad un’etica globalizzata e a valori condivisi da globalizzare. Tuttavia, in occidente abbiamo ormai di fatto un’etica di tipo relativista, estremamente evanescente, per cui sembra quasi improponibile, per certi aspetti, una globalizzazione etica, se non intesa in un contesto minimizzante.
Il recente documento del Pontificio Consiglio della Cultura sul dialogo interreligioso, che ha per oggetto il fenomeno della New Age, si riferisce forse a questa esigenza di religiosità minimale, come se vi fosse una sorta di corrispondenza tra la globalizzazione delle merci, dei capitali, delle persone e una religione sincretista che in qualche modo ad essa si adatti, in contrapposizione alle cd. religioni tradizionali, caratterizzate da propri vincoli etici.
In questa prospettiva, a Suo avviso, la globalizzazione delle religioni può trovare proprio nella New Age un possibile elemento di riferimento? E la Chiesa, al di là del documento critico nei confronti della New Age, come pensa di interagire e confrontarsi con questa tematica, tenuto anche conto del contesto storico nel quale ci troviamo?
R. Il tentativo di creare una religione universale, che possa unificare, fondendole, tutte le religioni particolari, è ricorrente nella storia. Basti ricordare l’opera di Voltaire Zadig, ma anche l’apparizione dei Sikh in India, nati nell’Ottocento prendendo elementi del buddismo e dell’induismo con lo scopo di creare una religione che fosse di tutti. Il risultato, tuttavia, non è stato che quello di creare una nuova religione, divenuta poi, in qualche caso, altrettanto intollerante.
Non credo proprio nel successo di una religione universale, ridotta ad un comune denominatore globalizzato.
Il compito di umanizzare la globalizzazione, più esattamente il nostro mondo, non tocca solo ai cristiani o alla Chiesa cattolica, o a una religione universale, ma a tutti, indipendentemente dal credo professato. Invece vanno certamente ricercati valori comuni intorno ai quali convergere e poi creare gli strumenti che consentano la messa in atto e la difesa di questi valori.
Sto pensando ai diritti dell’uomo e della donna, alla maggiore partecipazione, in senso democratico pieno, alle decisioni da prendere, alla possibilità di far crescere ogni persona e ogni comunità in senso integrale, sviluppandone tutte le potenzialità nel rispetto delle culture locali.
In altri termini, di fronte alla globalizzazione non si deve correre il rischio di essere annullati da una sorta di “compressore” stradale in un paesaggio hollywoodiano, dove tutti vanno da Mc Donald’s.
Ciascuno deve salvaguardare le proprie caratteristiche, le proprie tradizioni, le proprie culture. Le religioni devono certamente imparare a convivere l’una con l’altra, anche se, a mio avviso, non sono tutte uguali.
Rispetto chiunque abbia un credo diverso dal mio, ma è necessario sottolineare come alcune religioni siano costruite dall’uomo, come la New Age, mentre altre si proclamano rivelate, come il Cristianesimo – nelle sue varie confessioni – e l’Islam.
Le religioni rivelate sono date da Dio e tramandate nel corso dei secoli, anche se con modalità diverse. Il credente non è libero di accettare alcuni elementi sostanziali della religione professata abbandonandone altri. Allo stesso modo non può prendere in prestito da altre religioni principi che sono sconosciuti, diversi dalla propria, – o, peggio, in contrasto con essa – dando luogo ad una sorta di self-service in un ipotetico supermarket delle religioni.
Il New Age è certamente di questo tipo.
Ritengo che ogni religione abbia come dovere fondamentale quello di rafforzare la propria identità. Si può portare avanti un dialogo efficace e avere rispetto per chi la pensa diversamente solo se si è consapevoli della propria identità. Soltanto in tal modo è infatti possibile individuare valori comuni.
Non credo, tuttavia, che sarebbe un buon servizio per nessuna religione eliminare gli aspetti più difficili da accettare e più scomodi, al fine di trovare un denominatore comune che livelli tutte le religioni e metta tutti d’accordo intorno ad un tavolo.
La religione del New Age è la tipica religione di gente, donne e uomini, che – credo in buona fede – cercano di fare con le proprie forze l’esperienza mistica di immersione nel Tutto divino. La religione cristiana – come ci viene tramandata dalla Scrittura – è invece una religione in cui Dio nel suo amore pieno di misericordia cerca l’essere umano, cerca un contatto con gli uomini e con le donne e manifesta loro la via della salvezza, che può ottenersi solo per la sua grazia. Via che poi va incarnata nelle varie epoche e più ancora nelle varie culture per cui la Chiesa deve essere impegnata in un continuo lavoro di inculturazione, sempre difficile e rischioso, per gli adattamenti e le revisioni che esige.
Durante il Concilio, per esempio, venne coniato il termine aggiornamento – che è usato non tradotto, cioè riportato in lingua italiana, anche in Germania e in Brasile – per indicare questo continuo sforzo per adattare un messaggio perenne, come quello evangelico, ad un mondo in continuo cambiamento, anche in relazione alla nostra sensibilità, al nostro modo di recepirlo e di viverlo. Di conseguenza, cambiano i simboli e le espressioni culturali in cui questo messaggio si incarna e viene vissuto. Vale, in altri termini, l’adagio Ecclesia semper reformanda, sia perché i suoi uomini manifestano ed hanno manifestato, purtroppo, molti difetti – e parlare di difetti è, qualche volta, un eufemismo – sia perché il riferimento è ad una Chiesa che, sulle fondamenta poste da Gesù e dagli Apostoli, si costruisce continuamente, composta com’è da persone vive, guidate dallo Spirito, il cui compito è inesauribile e, per certi aspetti, affascinante.
D. Uno degli aspetti della globalizzazione economica è l’incremento dei flussi migratori. Tradizionalmente, il Santo Padre ha manifestato una posizione molto aperta su questo tema. Nell’incontro con il Parlamento italiano, lo scorso mese di dicembre, ha in particolare sottolineato anche la necessità che le comunità di immigrati rispettino le leggi dello Stato nel quale scelgono di risiedere. Inutile sottolineare che la questione immigrazione è terreno di possibili tensioni sociali. Entrano in gioco valori importanti ma soprattutto questioni concrete relative all’incontro tra culture diverse e alla coesistenza di differenti religioni.
Ci piacerebbe, in proposito, conoscere il Suo punto di vista.
R. Questa problematica interessa attualmente tutto il mondo e, sebbene non faccia parte della globalizzazione legale – perché eccetto Stati Uniti, Australia e Canada nessun Paese ha una legislazione fatta per accogliere ed integrare, dando la cittadinanza a persone che ne abbiano i requisiti necessari – ogni Paese è occupatissimo a bloccare, invano, le proprie frontiere.
La posizione della Chiesa è quella di ricordare che prevalente è il bene comune, poiché il pianeta e le sue risorse sono – e devono essere realmente – a disposizione di tutti, in particolare dei più deboli.
Nella tradizione biblica lo straniero migrante è una delle categorie emblematiche del debole, insieme alla vedova e all’orfano. La posizione della Chiesa è certamente di disponibilità e di apertura nei confronti di tale problematica. Vanno, tuttavia, valutate le circostanze concrete, in quanto la Chiesa non ha mai detto di accogliere tutti indiscriminatamente, se non nel caso di necessità urgenti.
Sono utili legislazioni specifiche, perché uno Stato ha il diritto di regolamentare l’accesso all’interno delle proprie frontiere.
Voler aiutare tutti significa, in definitiva, non aiutare nessuno.
Mi pare che ciò che, in primo luogo, la Chiesa in Italia sottolinea, è di non dimenticare che la nostra popolazione per molti decenni è stata emigrante e da emigrante si è lamentata per come veniva trattata. Adesso sarebbe bene non comportarsi allo stesso modo, anche se è doveroso precisare che la situazione attuale non ha connotazioni sempre uguali a quelle delle generazioni passate.
In secondo luogo, è necessario mettere in forte rilievo che il nostro Paese ha bisogno di molti immigrati, sia dal punto di vista demografico che dal punto di vista economico, in quanto ci sono dei lavori che gli italiani non sono più disposti a fare.
Abbiamo eliminato la povertà di massa, provvedendo a fornire un reddito agli anziani e soprattutto alle anziane sole. Tutto ciò però non è sufficiente al benessere di questa categoria, in quanto c’è bisogno di persone che “badino” loro. Si rende così necessaria la presenza di immigrati che svolgano la funzione di «badanti».
La Chiesa sottolinea, come ho già avuto modo di affermare, di non aver paura dell’altro. Tuttavia, a volte assistiamo ad un vero e proprio rigetto nei confronti di persone che temiamo possano sconvolgere la nostra cultura. Arriviamo addirittura a dimenticare che in Europa tutti gli altri Paesi – ad esempio Francia, Belgio, Germania o Inghilterra – o quasi tutti, hanno più immigrati rispetto all’Italia e non sembrano certo aver perso la propria identità nazionale.
Il problema è che il fenomeno per noi italiani è del tutto inedito, ci ha colti di sorpresa. Non eravamo troppo disposti a convivere con l’immigrazione in quanto, se è vero che essa ha sicuramente aspetti positivi, dobbiamo riconoscere che ha anche risvolti inquietanti. In Italia non c’era nessuna legge che regolamentasse una questione allora inesistente, non vi erano istituzioni adeguate e soprattutto sufficiente preparazione culturale.
Ci siamo così scoperti anche noi in non piccola misura razzisti e intolleranti. A ciò la Chiesa intende provvedere con un’opera di educazione, senza nascondere né la necessità di una regolamentazione, né le difficoltà che possono incontrarsi per la presenza rilevante di persone di religione diversa.
Tali persone infatti, anziché integrarsi nel nostro Paese, tendono a volte a formare “ghetti” separati, intendendo con questo termine comunità chiuse. Un industriale mi diceva, a questo proposito, che alcuni suoi lavoratori di religione islamica chiedevano che la fabbrica, con la sua catena di montaggio, si fermasse cinque volte al giorno per la preghiera. Poi, quando l’industriale si è recato in Egitto, ha scoperto che nessuna fabbrica si ferma. Da noi la preghiera diventava, dunque, uno scudo, una sorta di difesa dalla cultura cristiana, che non aveva necessità di essere fatta valere nei Paesi islamici.
Un altro fenomeno d’interesse da regolamentare è quello dei matrimoni misti, specialmente con i musulmani. In genere funzionano abbastanza bene nel caso in cui la famiglia viva in Italia, ma sono esposti a grossi rischi se la famiglia si trasferisce nel luogo d’origine. Di solito, è infatti l’uomo giovane che si sposta dal Paese d’origine per trasferirsi in Italia e che spera poi di ritornare. Qualora faccia rientro in patria, il diritto nazionale, nella maggior parte dei casi, non riconosce parità di condizione alla donna, né per viaggi, né per studio, né per l’eredità, né per la vita familiare.
Secondo la Chiesa, necessita di regolamentazione anche l’offerta di manodopera a basso costo. In Italia, come negli altri Paesi occidentali, cento anni e oltre di lotte sindacali hanno consentito alle classi meno abbienti – che vivevano principalmente di lavoro dipendente – di conseguire una serie di conquiste sociali che potrebbero essere messe a repentaglio aprendo indiscriminatamente le frontiere e consentendo una concorrenza sleale, costituita dalla manodopera di “disperati” che si offrono a qualunque prezzo. A differenza di quanto avveniva per l’emigrazione italiana, ancora mancano strutture di accoglienza adeguate, perché chi viene in Italia di solito trova lavoro, ma solo quello.
D. Nell’ultimo ventennio, varie encicliche del Pontefice Giovanni Paolo II hanno ridato impulso alla dottrina sociale della Chiesa. Ricordiamo, ad esempio, la Laborem exercens, la Centesimus annus e, in modo precipuo, la Sollicitudo rei socialis che, nell’anno 1987, sottolineava come la dottrina sociale della Chiesa fosse espressione della teologia morale. In tale contesto, la questione del lavoro trova particolare attenzione, in relazione a valori essenziali quali la dignità dell’uomo e la famiglia. Potrebbe descriverci l’evoluzione della dottrina sociale della Chiesa nel periodo più recente?
R. Giovanni Paolo II, l’attuale Pontefice, sottolinea che la dottrina sociale della Chiesa, che molto spesso si è occupata di lavoro, fa parte della teologia morale. Storicamente non è stato sempre così, perché la cd. dottrina sociale della Chiesa è nata intorno ad alcuni problemi incandescenti e controversi che trovavano il loro denominatore comune nel lavoro.
Tradizionalmente la Rerum novarum, del 1891, rappresenta il primo documento specifico della dottrina sociale della Chiesa. Nasce per la questione operaia, per alcuni aspetti della rivoluzione industriale e per le modalità con le quali si stava sviluppando il fenomeno – dalla fine del Settecento e per tutto il corso dell’Ottocento –, per un tipo di lavoro, cioè, che anziché elevare l’uomo e dargli la possibilità di contribuire al progetto di Dio sul mondo, praticamente lo schiavizzava. In realtà, il tema centrale di tutta la dottrina sociale non è il lavoro ma la persona umana. Dato che l’aspetto centrale più dibattuto e controverso da un punto di vista sociale è rappresentato dal lavoro, di fatto i documenti hanno sempre toccato, in un modo o nell’altro, la tematica del lavoro.
Ma lo scopo della dottrina è quello di difendere la persona umana in tutti i vari aspetti che contribuiscono a inserirla nella società umana: la famiglia, il lavoro, l’azienda, la mondializzazione, il commercio internazionale, per evitare che l’uomo ne diventi solo uno strumento o addirittura una vittima.
La dottrina sociale non ha fatto altro che riflettere, alla luce del Vangelo e della tradizione cristiana, sui vari fenomeni che via via si sono presentati nella società umana. Tra questi il lavoro, le condizioni in cui si svolge, la disparità tradizionale – che non direi ancora superata – tra i vari fattori della produzione, quali, per esempio, capitale e lavoro. Infatti, se lo Stato non interviene, con una legislazione sul lavoro che riconosca che esso non è una merce come le altre, il lavoro è sempre soccombente rispetto al capitale, se non altro perché non può aspettare. Chi offre lavoro rispetto a chi offre capitale non si trova su un piano paritetico proprio perché, da un lato, vi è coinvolto l’essere umano con la sua dignità di uomo.
La dottrina sociale cerca di accompagnare la rapida evoluzione della società a seconda degli ambiti e delle problematiche che si presentano nei vari Paesi. Il problema del lavoro si presenta oggi con caratteristiche differenti rispetto a quelle dell’epoca industriale od operaia e con peculiarità specifiche che sono diverse in Italia e in India, in America Latina e in Africa. Pertanto, anche le soluzioni devono essere diverse. Il cammino europeo difficilmente può essere assimilabile al differente percorso degli altri contesti.
La dottrina sociale, più che in ambito propositivo, si è sviluppata spesso contro qualche cosa: le varie forme di sfruttamento dell’uomo, il capitalismo selvaggio, le soluzioni di questa moderna schiavitù che la Chiesa giudica non adatte a salvaguardare la dignità della persona umana.
Con tali motivazioni, è stato a lungo avversato il liberalismo classico, ma anche il comunismo ed il socialismo in tutte le loro forme.
Con il tempo, anche la dottrina sociale si è evoluta, ha affrontato con argomentazioni più sofisticate e più attente sia i meccanismi dell’economia moderna, che l’ateismo ed il materialismo rivoluzionario, origine di dittature e nuove forme di schiavitù non migliori di quelle cui si voleva rimediare. È interessante da questo punto di vista esaminare l’uso delle parole.
Il termine solidarietà, ad esempio, che il Papa esalta nella Sollicitudo rei socialis come risposta autentica e cristiana al fenomeno dell’interdipendenza, che oggi chiameremmo piuttosto globalizzazione, non ha un’origine cristiana, ma è un vocabolo inventato dai socialisti francesi dell’Ottocento in contrapposizione alla carità cristiana, di retaggio medievale. I documenti pontifici avevano per tale motivo sempre evitato questo termine che Giovanni Paolo II, invece, esalta perché pensa alla sua Polonia, a Solidarnosc, conferendo nuovo significato ad un vocabolo con origine polemicamente anticristiana.
Nell’enciclica Centesimus annus, d’altro canto, non sono stati benedetti termini come profitto e mercato, ma certamente il Papa ne ha riconosciuto la funzione positiva nella misura in cui restano strumenti e non diventano il fine ultimo dell’azienda o dell’economia nazionale.
La Chiesa ha il compito di mantenersi coscienza critica della società in cui i cristiani vivono.
Nel Magistero della Chiesa, e in particolare nella Sollicitudo rei socialis, si parla di «strutture di peccato». L’enciclica papale riconosce, cioè, che il male nasce dalla cattiveria umana, che, cristallizzandosi e cementandosi poi in strutture che divengono irreformabili da parte della volontà dell’uomo, agiscono contro di lui e lo condizionano perversamente nel suo agire.
Quando parla di “strutture di peccato”, il Papa non intende riferirsi solo ai due grandi sistemi economici o alle loro degenerazioni ma, forse, ha in mente anche questioni più specifiche quali, nell’epoca attuale, il meccanismo del debito estero per i Paesi poveri. Si tratta di un meccanismo che si autoperpetua e si autoalimenta provocando una spirale di povertà e di impoverimento progressivo irrisolvibile senza un intervento esterno.
Oggi, almeno in Occidente, è caduto uno degli antagonisti tradizionali. In altri Paesi, invece, quali Cuba, Vietnam, Corea del Nord, almeno ufficialmente, sono ancora al potere partiti marxisti-leninisti molto rigidi. La Cina, sta vivendo una sfida particolare: vige ancora il monopartitismo, ma è molto aperta dal punto di vista economico e guarda con interesse all’economia di mercato. Sapere se riuscirà in questa transizione, evitando i traumi dell’ex Unione Sovietica, è uno dei grandi punti interrogativi del futuro, come affermano S. Huntington ed altri importanti Autori. Il Papa, a mio avviso, proprio per il nuovo scenario, creato dalla caduta del comunismo, si sente maggiormente libero di commentare gli aspetti giudicati più delicati, non positivi, non umanizzanti dell’occidente. Anche perché, ritengo, ha meno paura di venire strumentalizzato dalla controparte. In passato, a volte si notava una certa cautela, probabilmente dovuta al fatto di aver vissuto in prima persona l’esperienza di un’economia p
ianificata e di una società costruita senza Dio e all’insegna dell’anticapitalismo.
D. Il quaderno n. 3660 de La Civiltà Cattolica, pubblicato il 21 dicembre del 2002, si è soffermato con un articolo a firma di Michele Simone S.I. (Un’Italia ferma in attesa di riprendere a navigare) sui risultati del trentaseiesimo rapporto del CENSIS, presentato a Roma nello stesso mese di dicembre. Ci piacerebbe dunque trattare in questa conversazione anche uno dei temi che emerge da quel rapporto per conoscere il punto di vista della Chiesa Cattolica.
L’idea di un paese fermo, con scarsa speranza verso il futuro, ci porta a riflettere infatti sulle giovani generazioni. Momenti fondamentali di una cultura dei valori che possa guidare la crescita di cittadini consapevoli sono l’educazione e la formazione. Tali argomenti, come del resto la famiglia, sono tradizionalmente al centro del pensiero cattolico. Come vede le giovani generazioni oggi? A suo avviso, attraverso quali strumenti è possibile fornire alle giovani generazioni speranze per il futuro?
R. La Chiesa vede le giovani generazioni con ottimismo, preoccupata sì per certi aspetti di superficialità, ma con molta speranza. Simbolo di tutto ciò è la forza di attrattiva che il Papa esercita su milioni di giovani. La Chiesa sa che il futuro dell’umanità sono le giovani generazioni, con la generosità e la fragilità che caratterizzano da sempre tale stagione della vita.
Per noi adulti, la difficoltà di comprendere i giovani è sempre esistita. Sin dai tempi degli Ittiti, preoccupati per il futuro del mondo, esisteva tale forma di pregiudizio: sono state ritrovate tavolette in cui si lamentava che i giovani non ubbidivano più, erano venuti meno alla serietà necessaria e non riconoscevano sufficientemente l’autorità paterna. Anche la Bibbia ci ricorda come certe problematiche siano sempre esistite. I nostri giovani riflettono aspetti tipici della società: sono spesso persone “sazie e insoddisfatte”, per dirla con l’espressione usata dal CENSIS qualche anno fa.
Sono persone che non soffrono per la mancanza delle cose ma per l’abbondanza di esse. Spesso, poi, non riescono ad usarle e – come dice Zamagni – i giovani non sanno cosa scegliere e vivono spesso la vita come un’occasione perduta, nell’incapacità di riuscire a dare realizzazione alle opportunità offerte loro.
I giovani di oggi, rispetto al passato, sono consapevoli del cambiamento profondo del mondo e sanno che l’esperienza dei genitori e degli adulti sarà loro meno utile rispetto a quanto è avvenuto per le generazioni che li hanno preceduti, fondamentalmente perché il percorso passato non sarà ripetibile. Tipica è la situazione nel mondo lavorativo: difficilmente i giovani svolgeranno il lavoro dei genitori, ad eccezione, forse, di dentisti, farmacisti e notai.
I figli hanno l’impressione di dover fare esperienza ed apprendere tutto praticamente da zero, come se il mondo cominciasse con loro. Hanno comunque capacità di impegno e volontà, se si convincono che una determinata causa li merita.
Invece, direi che una diversità importante possa essere individuata nella minore propensione ad un impegno per sempre, perché i giovani vivono in un mondo che ha fatto della mobilità il proprio credo. Mobilità in tutti sensi, che comporta una certa difficoltà ad accettare un impegno istituzionale, appunto per sempre. La scelta definitiva, ad esempio, in ambito familiare non sembra essere più quella del matrimonio, ma piuttosto quella di fare un figlio/a. Se seguìti e capìti, ritengo che i giovani siano ancora suscettibili di impegni che mettano in gioco la libertà, una delle doti più grandi che Dio ci ha dato, affinché possa essere rivolta verso qualcosa di cui valga la pena.
Tale atteggiamento, che è anche l’atteggiamento de La civiltà cattolica, risente anche del fatto che noi siamo adulti. Mi spiego meglio con un aneddoto, forse anche un po’ umoristico. Qualche anno fa abbiamo commentato un rapporto sui giovani e uno dei nostri migliori scrittori diceva che i giovani, in base al rapporto, non erano soddisfatti, rappresentando così un chiaro segno dell’incapacità di inserirsi nella società. Dimostravano disagio, se non devianza sociale, incapacità a fare propri gli stili di vita della società. Pochi mesi fa, lo stesso Autore commentava un altro rapporto in cui si diceva che i giovani oggi sono soddisfatti. Il commento è che i giovani di oggi non hanno ideali. Allora, poveri giovani, cosa devono fare?
D. Diversi scrittori hanno notato il passaggio, avvenuto alla fine degli anni sessanta, da una famiglia basata sull’autorità, autorità paterna/autorità sociale, ad una famiglia cd. affettiva, che pone al primo posto della gerarchia dei valori l’elemento affettivo piuttosto che quello materiale.
Le caratteristiche di questo tipo di famiglia, provocherebbero difficoltà all’inserimento sociale – aumentate anche dall’insicurezza procurata dalle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro – accrescendo la tendenza dei giovani a permanere all’interno della famiglia. Uno degli elementi della condizione giovanile sarebbe dunque la paura di non poter riprodurre autonomamente le condizioni di sicurezza e di benessere della famiglia di appartenenza. Qual è il Suo punto di vista in proposito?
R. Il rapporto familiare è cambiato notevolmente negli ultimi decenni. In Italia, come del resto in tutto il mondo occidentale, la famiglia si è molto privatizzata, sia dal punto di vista legislativo che da quello della mentalità corrente.
La famiglia di oggi è basata soprattutto sul buon volere, sulla libera scelta dei coniugi. Condizione che fa sì che i genitori, da un lato, siano più responsabili, dall’altro, invece, molto più soli e molto più fragili. Non c’è più il clan familiare, quale fattore di coesione, come succedeva nella famiglia patriarcale. Inoltre, poiché sia l’uomo che la donna si valorizzano soprattutto nel campo del lavoro, il momento di formare una famiglia viene sempre più ritardato, così come la scelta di fare figli. Non a caso, l’Italia è il penultimo Paese del mondo quanto a fertilità, preceduta soltanto dalla Spagna. Lo stare insieme, la solidità del matrimonio, è meno garantita dall’esterno, affidata più al sentimento e ad elementi molto forti ma estremamente labili, come, ad esempio, l’attrazione sessuale, vincolo fortissimo ma di natura instabile.
Nei confronti dei figli è vero che, come dicono i sociologi, la famiglia è sempre più puerocentrica, cioè a fortissima intensità affettiva. All’interno della famiglia non si impara più il lavoro, il figlio è desiderato non per trasmettere il patrimonio o per alleanze familiari, ma come un bene voluto e amato in sé stesso. Si tende a permanere nella famiglia perché il lavoro stabile esiste sempre meno o, comunque, sempre meno in giovane età. Il ritardo nell’uscita dalla famiglia non è legato solo a problemi economici, quali la difficoltà a trovare una casa o mantenere una propria famiglia, ma spesso è dovuto in Italia a motivi affettivi.
Secondo la mia opinione, ma anche secondo gli studiosi, ad esempio, di Famiglia oggi, le modificazioni subite dalla famiglia italiana nei confronti, ad esempio, dei contesti nordeuropei, sono più il segno di una famiglia che si trasforma per resistere che di una famiglia che intende cambiare profondamente i propri connotati.
Caso classico è quello della convivenza, fenomeno che costituisce in Italia il 3% delle unioni rispetto al 30-50% dell’Europa del nord, anche considerando i casi più originali, come ad esempio la convivenza tra persone di uno stesso sesso.
Spesso da noi la convivenza è affrontata piuttosto che come una condizione stabile, come un matrimonio di prova, in previsione di un futuro vero matrimonio. La nostra è piuttosto una famiglia che cerca di salvare i connotati classici, anche se in un contesto diverso. La famiglia chiede un aiuto anche alla società perché pur modificandosi, rimanga una cellula fondamentale. È innegabile che la famiglia sia molto cambiata, si sia ristretta, sia lasciata molto sola. Consultando l’annuario di statistica, si può notare che il numero delle famiglie in Italia è enormemente aumentato, ma nel contempo è diminuito il numero dei componenti. Ciò non solo perché è diminuito il numero dei figli ma anche perché moltissime famiglie sono costituite da un individuo solo. L’uomo, d’altra parte, non è fatto per vivere da solo, dunque se certe forme di socializzazione del passato sono venute meno, bisognerà inventarne altre.
La Chiesa non parla mai di individuo ma di persona, a sottolineare anche l’aspetto relazionale. Il modo con cui tali relazioni vengono espresse, simboleggiate, vissute, cambia non solo da nazione e nazione, ma anche da regione a regione, dalla campagna alla città, ecc.. Se tale fenomeno avviene con modalità pacifiche è sicuramente anche motivo di mutuo arricchimento: noi possiamo soffermarci a valorizzare elementi troppo velocemente superati che invece potrebbero essere ancora valori positivi e gli immigrati possono accorgersi che esistono possibilità diverse per vivere i rapporti familiari.
I gruppi giovanili, d’altra parte, non rinunziano a certi aspetti di socializzazione. Se è diminuito il rapporto con la famiglia di origine è sicuramente aumentato il rapporto con il «gruppo», cioè gli altri giovani: socializzando, si condividono gli stessi modelli, ci si riconosce negli stessi simboli. Anche in campo religioso, seppure non siano più proponibili certe forme di aggregazione attiva giovanile, sono sorti ed hanno avuto successo i Movimenti. Connotati da grande vitalità, anche se abbracciano soltanto una minoranza di giovani, essi sono capaci di socializzare, creare fraternità e dare un alto senso di identità ai propri partecipanti, ai propri membri.
D. L’attenzione della Chiesa è tradizionalmente dedicata ai fenomeni di largo respiro, secondo una prospettiva di medio-lungo periodo. In tal senso, abbiamo appena visto che, all’inizio del nuovo millennio, la Chiesa Cattolica si trova ad affrontare sfide significative anche nel delicato settore della vita e della famiglia, poiché la Sua visione sembra essere messa fortemente in discussione. In tal senso, è significativo anche il ruolo svolto dai media, in grado di fungere da moltiplicatori di determinati trend culturali e, secondo alcuni, anche responsabili di aver contribuito a porre in secondo piano le radici cristiane dell’Occidente. Come considera la discussione in atto circa l’opportunità di inserire nella Carta Costituzionale europea (1) il riferimento alle radici cristiane?
R. È innegabile che l’Europa che conosciamo, sia quella occidentale che quella centrale e orientale, abbia risentito del cristianesimo e sia stata ampiamente modellata da esso. Anche se il cristianesimo non viene più vissuto a livello di fede, sicuramente l’area europea risente dell’influsso evangelico dal punto di vista della cultura, dell’arte, della letteratura, della poesia, delle arti figurative, delle tradizioni familiari, ecc..
La mia preoccupazione non è rivolta a verificare l’inserimento o meno di termini cristiani – come Dio – nella Carta Costituzionale europea. Ritengo piuttosto importante che vengano inseriti e garantiti valori cristiani, quali il riferimento alla famiglia, alla difesa della persona umana, ad un certo tipo di cultura, alla solidarietà, alla libertà religiosa.
Potrei dire con un filo d’ironia che se verrà inserito il nome di Dio non mi opporrò, anche se in molti casi si è messo il nome di Dio in capo a realtà che di cristiano non avevano assolutamente nulla. Mi pare che la Santa Sede, più che a espressioni o allusioni generali alle «radici cristiane», miri al rispetto dei diritti di libertà religiosa (per i singoli e per le comunità), al riconoscimento della Chiesa come interlocutore e al rispetto dei vari Concordati. Ad ogni modo ritengo soprattutto importante che siano i valori ad essere assimilati, affinché un’eredità di venti secoli non venga dispersa.